GLI UOMINI DELLA RSI: MEZZASOMA
FERNANDO MEZZASOMA, L’INTRANSIGENZA
COME ATTO DI FEDE
Luigi Emilio Longo
Milano, corso Monforte, palazzo della pretettura:
sono le 19 del 25 aprile 1945, si attende il ritorno di Mussolini dall'Arcivescovado
dove è in atto l'incontro con il cardinale Schuster e con una delegazione
del CLN. La situazione sta precipitando, e la tensione si tocca con mano,
nel giardino, nei corridoi, nelle stanze del palazzo affollato di uomini
in divisa ed in borghese. Nell'aria densa di ansiosa incertezza e di inquieti
interrogativi, uno squarcio di serenità è offerto da un ministro
della Repubblica Sociale Italiana che, senza tradire la gravità
e l'emozione dell’ora, sta conferendo con il suo capo di gabinetto al quale
chiede di riferirgli sugli ultimi eventi di lavoro al ministero.
La scena e l’atmosfera hanno un che di irreale,
di kafkiano: non c'è più niente da chiedere, non c'è
più niente da riferire, sta crollando tutto. L'unica cosa che rimane
in piedi, inalterata, è questa manifestazione di dignitosa aderenza
ad un ruolo e ad una funzione. Ma non è che il prologo di un’ancora
più alta espressione di coerenza. Rientrato Mussolini dall'Arcivescovado,
dopo aver anch'egli ricevuto le direttive per la partenza verso Como il
giovane ministro -non aveva ancora compiuto 38 anni- riprende contatto
con il capo di gabinetto. Dispone che il personale rimanga a Milano, lui
solo avrebbe seguito il Duce. E' sbrigativo, insolitamente brusco, un atteggiamento
preordinato in netto contrasto con l'indole abituale, un palese tentativo
per arginare la commozione di un commiato che sa definitivo. Al più
diretto collaboratore che, nello sciogliersi di un abbraccio frettoloso,
la tensione emotiva del momento porta a pronunciare un breve, affettuoso
interrogativo circa la sorte del suo capo, una risposta altrettanto breve:
“Sono un ministro di Mussolini, vado a morire con lui”.
Dieci parole, la soluzione dell'equazione etica
di Fernando Mezzasoma, ministro della Cultura Popolare della Repubblica
Sociale Italiana, il suggello della sua vita e della sua morte.
L'uomo rappresenta una delle figure più limpide
ed esemplari del fascismo, uno dei pochi che ne abbia saputo interpretare
ed esprimere compiutamente i presupposti e le matrici ideali. Le coordinate
della sua esistenza costituiscono l'immagine più fedele di quello
che avrebbe dovuto e potuto essere e non fu, l'elaborazione in termini
ideali e comportamentali di un modulo paradigmatico proiettato verso obiettivi
lontani facenti parte di un sistema superiore, veri e propri “miti da conquistare”
secondo una formulazione cara a Sorel.
L'ideologia fascista, comunque la si riguardi ed
a prescindere dal consentire o meno con essa, è stata per la realtà
italiana un lusso che questa non era in grado di potersi permettere, un
qualcosa di troppo grande, fuori misura. Se è vero che il fascismo
è stato squisitamente italiano nella sua ragion d’essere storica
e nel suo divenire fenomenologico, è altrettanto vero che quello
italiano era certamente il contesto sociale meno idoneo a gestirne la tensione
ideale che ne costituiva il presupposto di base. Un limite, una penalizzazione
antropologica di carattere fisico e culturale insieme che non avrebbe tardato
a rivelarsi non appena cessato, il clamore dei trionfalismi dei momenti
facili e della romanità di cartapesta, si fosse arrivati all'appuntamento
impietoso delle prove senza appello.
Nella sua formulazione originaria, prima ancora
che rivoluzione delle cose quella fascista doveva essere rivoluzione delle
idee, o meglio dello spirito, una trasformazione delle coscienze che doveva
precedere la trasformazione delle strutture. Quella fascista era una rivoluzione
che mirava a costruire, non a distruggere, a fare un deserto della società
nel cui ambito si era sviluppata, così come era stato per quella
francese e per quella bolscevica. Doveva rappresentare una produzione continua
di valori che non poteva che tradursi in un'etica del sacrificio, quasi
una sorta di morale della sofferenza avente come presupposto la consapevolezza
della durezza originaria ed inalterabile della vita intesa, in chiave darvinistico-sociale,
come lotta. Una sorta di pessimismo razionale, attivo, critico, virile,
stimolatore di volontà, per il quale all'anelito ideale si associava
anche un vivo senso di concretezza e di realismo, in una simbiosi capace
di sfumare la contrapposizione intellettiva che d'altra parte, in qualsivoglia
ideologia, ha titolo di presenza quando non si commetta l'errore di voler
vedere la stessa come una costruzione caratterizzata dalle concordanze,
dalle uniformità, dalle perfette intersezioni e sovrapposizioni.
Le idee, ha scritto Brasillach, nascono soltanto dal contatto con le realtà
terrestri, vicine come sono a quel che si è sentito e vissuto. Il
fascismo, nella sua concezione della vita, poneva delle antitesi: la supremazia
dell'intuizione sul raziocinio, della sintesi sull'analisi, dell'immediatezza
sulla mediazione, del gesto plastico sul convincimento logico, dell'intensità
sulla durata. Era il punto di incontro (o di scontro) di irrazionalismo
e di positivismo élitistico, di idealismo e di spiritualismo. Non
era una tesi “a priori”, ma una dottrina creata nel corso dell'azione;
ed una dottrina non consiste soltanto nelle esplicite formulazioni teoriche
ma anche, e forse specialmente, in tutto uno stato d'animo, in tutto un
atteggiamento, in tutta una concezione di vita non meno vera e precisa
di quelle tali formulazioni.
Ma il fascismo parlava di vita scomoda, di sacrificio,
di combattimento. Ed è arduo, molto arduo, poter credere a posteriori
che la realizzazione di tutto ciò avrebbe potuto avvenire in un
contesto quale quello italiano se appena si riesce a sganciarsi dall'immaginario
retorico di ciò che, a livello di anima collettiva, si vorrebbe
essere e ci si cala invece nella realtà, invero poco edificante,
di ciò che in effetti si è. Questa presa di coscienza, sgradevole
ma doverosa, rende ancora più luminosa la figura di quei pochi che
vissero l'Idea sul metro di un'interiorità profonda e continuamente
alimentata, entusiasta e nel contempo sofferta perché quotidianamente
posta di fronte all'altro modello interpretativo, quello dei molti per
i quali il fascismo rappresentava non più che una costruzione solida,
comoda, utile, nella quale adagiarsi e trovare ricetto.
Tra quei pochi, Fernando Mezzasoma. Una personalità
inconfondibile, in grado di armonizzare al meglio valori spirituali e sostanziali,
proiettata verso un ideale ancor prima che verso un'ideologia.
Era nato a Roma il 3 agosto 1907 da una famiglia
della piccola borghesia trasferitasi poco tempo dopo a Perugia, dove il
padre era impiegato presso la Banca d’Italia. La morte del genitore, avvenuta
nel 1920, costringeva Fernando, ancora adolescente, ad impegnarsi in lavori
saltuari per aiutare il bilancio familiare, non trascurando nel contempo
di continuare a studiare conseguendo dapprima il diploma di ragioneria
e stenografia ed, in seguito, anche la laurea in scienze economiche. Il
primo impiego lo trovava in un'autorimessa, presso la quale rivedeva i
conti e dava una mano nel disbrigo della corrispondenza e delle incombenze
di ufficio in genere. Ma era una condizione piuttosto mortificante e precaria,
ed il giovane Mezzasoma non esitava a rispondere ad un’inserzione apparsa
su un giornale attraverso la quale l'avvocato Amedeo Fani, all'epoca Consigliere
Nazionale del P.N.F. ed esponente di rilievo dell'ambiente politico perugino,
cercava un segretario. Divenutone in breve il braccio destro, tale rimaneva,
a maggior ragione, allorché Fani, nominato sottosegretario al ministero
degli Esteri nel settembre 1929 in sostituzione di Dino Grandi, si trasferiva
a Roma.
La capitale doveva rappresentare un trampolino di
lancio per l'attività politica di Mezzasoma, consentendogli di stabilire
le prime importanti conoscenze e di mettere in evidenza le proprie non
comuni doti intellettive e morali. Iscritto al P.N.F. sin dal 1921, nella
seconda metà del 1932, venuto meno il rapporto di lavoro con Fani
che nel luglio dello stesso anno aveva passato le consegne a Fulvio Suvich,
diveniva membro del Direttorio Federale di Perugia e Segretario del GUF
della stessa provincia, incarichi che ricopriva sino al 1935 in contemporanea,
negli ultimi due anni, con la direzione del “L'Assalto”, organo della federazione
fascista umbra del quale era stato collaboratore dal 1925 e poi anche redattore
capo. Nell’aprile 1930 era stato nominato Vice Presidente della Scuola
di Mistica Fascista. Dal 1935 all'inizio del 1937 la posizione in seno
al GUF assumeva carattere nazionale, con la nomina a Vice Segretario Generale
(corrispondente, in effetti, alla massima dirigenza dell'organizzazione
universitaria fascista, dal momento che l'incarico di Segretario Nazionale
competeva al Segretario del Partito in quanto tale: l'attribuzione di queste
funzioni gli aveva impedito di veder accolta la domanda di arruolamento
volontario per la campagna d'Etiopia), mentre dal 12 gennaio 1937 al 23
febbraio 1939 assurgeva a membro del Direttorio Nazionale del P.N.F. Divenuto
anche Consigliere Nazionale, da tale data avrebbe ricoperto la carica di
Vice Segretario del Partito, mantenuta sino al 9 marzo 1942 sotto le gestioni
di Starace, Muti, Serena e Vidussoni. Dal marzo dello stesso anno e sino
al 25 luglio 1943, svolgeva le funzioni di Direttore Generale della stampa
italiana presso il ministero della Cultura Popolare con i ministri Gaetano
Polverelli e Renato Rinaldi.
Negli undici anni durante i quali si era andata
esplicando la propria attività di dirigente politico, Fernando Mezzasoma
aveva avuto modo di mettere in evidenza tutti gli aspetti di una personalità
di non comune spessore intellettivo e morale. In proposito, vi è
una concordanza assoluta, unanime, nelle testimonianze di quanti gli sono
stati vicini in una comunione di lavoro e di fede; né a questo riconoscimento
si sono potuti sottrarre anche quelli dell'altra parte, impossibilitati,
pur nella foia antifascista omnidissacrante, a negare o a svilire in qualche
modo la statura del personaggio. Viveva secondo un modello ideale, senza
sforzo, nelle grandi come nelle piccole cose, consapevole che l'esempio
è più dell'eroismo, è la regola e non l'eccezione,
è la continuità, non il momento. Il suo esempio si traduceva
tutto in atti di vita. Non era un moralista, era piuttosto un uomo dotato
di grande senso morale. Nessuno era meno gerarca di lui, nel significato
formale e deteriore del termine, ma nessuno era più di lui compreso
delle responsabilità, dei doveri e delle sostanziali prerogative
della gerarchia intesa, piacesse o no, come una derivazione diretta ed
inevitabile della fondamentale diseguaglianza dalla quale era segnato il
destino umano. Era semplice perché credeva a quello che faceva.
I suoi problemi interiori non erano i problemi del “perché”, erano
i problemi del “come”. Il “perché” era scritto a lettere indelebili
nel grande libro della sua coscienza, e non era un “perché” fatalistico,
era un “perché” di fede.
Non è un caso che, ancora ventitreenne, fosse
entrato a far parte, ed in una posizione di primo piano, di quella Scuola
di Mistica Fascista che doveva fungere da centro ideologico teorizzatore
e propulsore dei principi politici, etici e filosofici della nuova concezione
fascista della vita proposta nel suo nucleo più puro ed autentico,
un richiamo alla vocazione volontaristica ed attivista del fascismo delle
origini, una dimensione generosa, entusiasta, vitale, devota senza preclusioni
o riserve. Fra il 1930 ed il 1940 i “mistici”, raccolti intorno a figure
come quelle di Niccolò Giani, di Guido Pallotta e di Fernando Mezzasoma
erano assurti al rango di nuovi ideologi del regime. Con loro tornava alla
ribalta l'anima più genuina e credente di un fascismo fideista alieno
da mezze misure e compromessi, che si riferiva alle matrici ideali del
primo fascismo, a ciò che esso rappresentava in termini di dedizione,
combattività, intransigenza. Erano, veramente i protagonisti del
“fascismo dello spirito”, quello che alla rivoluzione conquistatrice del
potere voleva far seguire la rivoluzione rinnovatrice del costume e della
società, quello che non si accontentava di scavare nella Storia
ma voleva scavare nelle coscienze. L'espressione della loro coerenza di
pensiero e di azione si sarebbe manifestata nel modo più chiaro
il 10 giugno 1940, allorché la totalità dei “mistici” chiedeva
il richiamo alle armi “raccomandandosi” presso la segreteria particolare
del Duce affinché le destinazioni riguardassero i più rischiosi
reparti delle forze armate.
Questa volta, nessuno riusciva ad impedire a Fernando
Mezzasoma l'arruolamento volontario quale tenente nel 7° reggimento
di artiglieria da campagna della Divisione “Cremona”. Terminate le operazioni
sul fronte alpino occidentale, nel corso delle quali era stato decorato
con una medaglia di bronzo al v.m., Mezzasoma proseguiva la propria esperienza
bellica in Africa Settentrionale con la 1° Divisione Camice Nere “23
Marzo”, prendendo parte alla prima vittoriosa avanzata su Sidi el Barrani.
Una medaglia d'argento ai v.m. andava ad arricchire il suo medagliere.
I contenuti ideali ed intellettuali del giovane
dirigente trovavano agevole proiezione nella sua facile penna. Sin dai
tempi di Perugia, era iscritto all'albo dei giornalisti. Oltre alla direzione
de “L'Assalto” già menzionata, nel 1935 aveva collaborato all'altro
“Assalto”, quello più noto di Bologna, così come a “Libro
e Moschetto” del quale dal 1938 al 1940 era stato condirettore responsabile.
Aveva diretto anche “Passo Romano”, fino al gennaio 1942, ed era stato
condirettore de “Il libro italiano” de “Il libro italiano nel mondo” e
di “Dottrina Fascista”, la rivista della Scuola di Mistica. Numerose le
collaborazioni a diversi periodici quali “Costruire”, “Universalità
Fascista”, “Politica Nuova”, “Gerarchia” e “Meridiani”. Era intervenuto
anche nell'elaborazione del “Dizionario Politico” del P.N.F., curandone
la presentazione e l'ampia voce sui GUF.
Molti degli articoli, firmati con lo pseudonimo
di “Diogene” e pubblicati su “L'Assalto” di Perugia e su “Libro e Moschetto”,
erano stati raccolti in un volume dal titolo “Aspetti di vita borghese”,
edito a Foligno nel 1935. La tematica era una delle più care all'autore,
che polemizzava con la borghesia intesa non tanto e non solo come categoria
socio-economica quanto invece politico-morale, come abito mentale, come
stato d'animo, come atteggiamento dello spirito, come complesso di gusti
e di abitudini, come modo di vivere. La rivoluzione fascista, sosteneva
Mezzasoma, vista nei suoi diversi obiettivi storici, economici e morali,
voleva essere il superamento e la negazione della borghesia, di quella
morale come di quella economica, perché il fascismo si era prefisso
di governare non in nome di una classe ma in nome della nazione.
Un'altra nota costante nella pubblicistica di Fernando
Mezzasoma era quella dei giovani come “forza nuova”, un anelito al rinnovamento
dei quadri della vita nazionale. Ma ancora più dominante, espressione
di una matrice spirituale che il tempo, anziché scalfire, avrebbe
reso ancor più salda ed incrollabile, la tematica dell'intransigenza
e della fede che ne costituiva presupposto inscindibile. L'articolo “La
parola d'ordine per le battaglie future” su “L'Assalto” del 26 novembre
1927, così affermava: “...noi giovani che il fascismo seguimmo sempre
con passione e con grande fede per esso soffrimmo e lottammo contro il
menefreghismo e lo scetticismo, noi giovani vorremo che la parola d'ordine
fosse sempre la stessa quella delle dure battaglie che i nostri fratelli
maggiori combatterono e vinsero; quella che fece sempre ripudiare certo
collaborazionismo più o meno insincero, quella a cui furono ispirate
tutte le azioni del fascismo in questi primi 5 anni di travaglio di fatiche
e di costruzione: intransigenza”.
Il concetto era ribadito 13 anni dopo, su “Libro
e Moschetto” del 6 gennaio 1940, ed è forse ancor più significativo
perché l'articolo era dedicato al “Centro di preparazione politica
per i giovani” inaugurato alla Farnesina tre giorni prima: “...Il Centro
vuole essere una scuola di fede e di esperienza rivolta a moltiplicare
nei giovani quelle doti che devono caratterizzare l’”uomo fascista”: la
disciplina silenziosa e cosciente, l'abitudine all'obbedienza senza la
quale non si può meritare il privilegio del comando, l'intransigenza
della fede, la sola forza che possa “muovere le montagne”, la necessità
del sacrificio come mezzo indispensabile di ogni conquista, l'ansia dell’elevazione
come modo di concepire la vita, la gioia del combattimento come fine supremo
della propria esistenza”.
E su questo tema, struttura portante della propria
equazione esistenziale, Mezzasoma tornava circa un mese dopo, in occasione
del 1° Convegno Nazionale della Scuola di Mistica Fascista. Nella sua
relazione, dal titolo “Perché siamo mistici”, ecco riproporsi “...la
fede autentica, la nostra bella fede intransigente, la fede che è
parvenza delle cose sperate e argomento delle non parventi, la fede che
ci sublima e senza la quale arioso sarebbe parlare di mistica”.
La stampa fascista, nel clima di inveterata malafede
che da 50 anni caratterizza qualsiasi ricostruzione “ufficiale” di quel
periodo, è stata indiscriminatamente liquidata come semplice cassa
di risonanza per le “veline” emanate dal Ministero della Stampa e Propaganda
prima e da quello della Cultura Popolare poi, priva quindi di nerbo, personalità
ed idee. Se questo può essere vero per quanto concerne i quotidiani,
fonti immediate dell'informazione corrente e come tali soggetti a direttive
di orientamento, non lo è certamente per ciò che riguarda
riviste e settimanali, sui quali il dibattito politico-culturale aveva
agio di manifestarsi e spesso con un accentuato spirito critico (ricordiamo,
fra i tanti i più noti a livello nazionale: “Critica Fascista” di
Bottai, “Il Secolo Fascista” di Fanelli, “L’Italiano” di Longanesi, “Il
Selvaggio” di Maccari, “L'Universale” di Ricci, “Vent'anni” di Pallotta,
e “Nuovo Occidente”, “La Piazza”, “Impero Fascista”, ecc.). Ma forse ancora
più attivi in questo senso erano i periodici di provincia, in genere
portavoce dei GUF locali, particolarmente attivi nel decennio 1930-1940:
“L'Assalto” a Bologna, “Il Bargello” e “Rivoluzione” a Firenze, “Roma Fascista”,
“Libro e Moschetto” a Milano, “Il Campano” a Pisa, “Il Bo” a Padova, “9
Maggio” a Napoli, “L'Appello” a Palermo, “Santa Milizia” a Ravenna, “Il
Ferruccio” a Pistoia, “Eja” ad Ascoli Piceno, “Calabria Fascista” a Cosenza
e tanti altri ancora. Erano vere e proprie “palestre libere” di idee, di
proposte, di polemiche sul piano politico e su quello culturale, talora
pungenti e fuori dai denti, una vera scuola di giornalismo. Erano espressione
di una vivacità che poi, da alcuni loro protagonisti con la fregola
postfascista di rifarsi una verginità, sarebbe stata chiamata “fronda
antifascista”, mentre era un'impostazione critica non “contro” il fascismo
ma “nel” fascismo, un tentativo per rivitalizzarlo e rinnovarlo dal di
dentro. In un corsivo su “L'Universale”, Berto Ricci chiedeva esplicitamente
meno “trombonate”, meno magniloquenza ridondante e, rifacendosi agli esibizionismi
di certi gerarchi e di alcuni giornalisti turiferari, affermava che “un'adunata
non è Austerlitz, un treno festivo non è la marcia su Roma,
chiediamo buon senso, misura, buon gusto”. Una voce, fra le altre, riecheggiante
il rammarico di una collettività che percepiva di non poter raggiungere
il livello di grandezza al quale era stata chiamata.
Quando era direttore generale della stampa
italiana, Fernando Mezzasoma aveva garantito impulso e tutela ai fogli
di provincia, salvaguardandone l'equilibrio tra fedeltà ed intelligenza,
ammettendo la critica ma contrastando il deviazionismo. Nella sua visione
etica, gli intellettuali non dovevano restare nella loro torre eburnea
ma calarsi nell’azione, mettersi al servizio di una causa e di una battaglia
che erano le stesse dell'intera nazione. Al di là comunque delle
idee più disparate, dibattute con libertà e spirito costruttivo
da giovani tra i 20 ed i 30 anni che si accapigliavano con gusto, uno era
il presupposto concettuale di fondo, tenace, fermo, ribadito con pertinacia:
la rivoluzione fascista sarebbe stata tale solo se fosse riuscita a creare
un nuovo tipo di italiano. Ecco, in questo risiedeva la loro “eresia"
nei confronti di un fascismo impastoiantesi sempre più in apparato
burocratico e conservatore e sempre meno in linea con la predicazione.
Per uno spirito intelligente come Mezzasoma, la
politica non era solo un problema di organizzazione sociale ed economica
ma un problema morale, la possibilità di realizzare una certa concezione
della vita, una certa estetica. E d'altronde, un cambiamento storico è
sempre anche un cambiamento nell’immagine dell'uomo: di conseguenza, ogni
assunzione di posizione politica non poteva, per un uomo della sua caratura
etica, non essere anche una presa di posizione esistenziale.
Il 25 luglio aveva sorpreso Mezzasoma in una piccola
località dell'Umbria dove la famiglia era sfollata. Il giorno successivo,
rientrato a Roma, si recava al ministero della Cultura Popolare dove passava
le consegne ed opponeva un fermo diniego all'invito, rivoltogli dal nuovo
ministro del governo Badoglio, a rimanere al proprio posto. Ribadiva che
dopo aver propugnato per tutta la vita l'ideale fascista ed essere assurto
nel P.N.F. a cariche tra le più elevate, non riteneva compatibile
la sua presenza con la situazione politica venutasi a determinare. Trascorreva
il resto di quella penosa estate del 1943 in seno alla famiglia, solo lenimento
alle inquietudini ed ai turbamenti dell'animo. Il 6 gennaio 1938 aveva
sposato Anna Deri, una bella e simpatica ragazza ungherese che, fruendo
di una borsa di studio, frequentava la facoltà di giurisprudenza
a Roma. Dal matrimonio erano nate tre bambine, Attilia, Giuseppina e Vittoria,
ed un maschietto morto però dopo appena due mesi. Nessuno, nel frattempo,
lo aveva molestato: troppo alte erano, da parte di tutti gli abitanti della
zona, La considerazione e la stima per l'uomo e per la sua dirittura morale.
La sera del 15 settembre una nota dell’agenzia Stefani
comunicava che Mussolini aveva ripreso la direzione del fascismo, nominando
Pavolini segretario provvisorio del partito: il 16 mattina, Fernando Mezzasoma
imboccava la strada per Roma, per incontrarlo e riaprire con lui, a palazzo
Wedekind in piazza Colonna, La sede del Partito Fascista Repubblicano.
Si dedicava, con il senso del dovere e l’impegno
che gli erano abituali, alla riorganizzazione della struttura, ricevendo
camerati, diramando ordini, cercando di rimettere in piedi un apparato
caduto in frantumi. Per molti rappresentava un punto di riferimento, una
garanzia, il senso della continuità. “Era la nostra coscienza fatta
persona”, così ha compendiato Almirante il sentimento che dalla
presenza dell'uomo promanava. La formazione del nuovo governo repubblicano
attribuiva a Mezzasoma il ministero della Cultura Popolare.
Verso la fine di settembre si recava a Venezia,
dove a Palazzo Volpi si installavano i primi uffici del dicastero. Circa
un mese dopo si trasferiva a Salò, a villa Amadei, con il capo di
gabinetto e la segreteria particolare, mentre in altri edifici della cittadina
erano dislocati la direzione generale della stampa italiana, l’intendenza,
il servizio intercettazioni radiofoniche ed alcuni uffici amministrativi.
Su un binario morto poco sopra Salò, un treno reale con i suoi tre
saloncini fungeva da foresteria. Fino al 4 giugno 1944, fu presente a Roma
una “sede Sud” del Ministero, che ne riproduceva in piccolo tutte le componenti
strutturali.
Si trattava di un organizzazione complessa, forse
ancor più di quella in atto prima del 25 luglio. E d'altro canto
va considerato come nella RSI, a differenza di altri ministeri la cui identità,
strettamente collegata all'integrità del territorio nazionale e
ad uno stato di normalità, non andava oltre quella di “ufficio stralcio”,
il dicastero della Cultura Popolare, imperniato sull'attività di
propaganda, assumeva un ruolo ed un'importanza tanto maggiori quanto più
la situazione generale andava aggravandosi, acquisendo attribuzioni prima
d’allora inconsuete. Fra queste, curata personalmente da Mezzasoma su incarico
fiduciario del Duce data la sua particolare delicatezza, La gestione delle
relazioni, ortodosse e no, tra il governo della RSI ed i territori dell'Alto
Adige e della Venezia Giulia, i famosi Adriatisches Kustenland ed Alpenvorland,
sui quali i tedeschi avevano iniziato ad esercitare un controllo diretto
subito dopo l’8 settembre. I numerosi tentativi da loro messi in atto per
far diluire l’italianità di quelle terre furono controbattuti dalla
vigorosa azione di propaganda, anche clandestina, attivata dal ministro
della Cultura Popolare, che intratteneva rapporti diretti e segreti con
ambienti italiani locali a scopo informativo e di reciproco appoggio.
Ma un altro aspetto del rapporto fiduciario che
Mussolini intratteneva con Mezzasoma, al di là dei compiti istituzionali
connessi con il dicastero da lui retto, è testimoniato dal fatto
che, quando l'ambasciatore Rahn aveva rimesso al Duce la proposta di legge
antiebraica, analoga a quella vigente in Germania, affinché anche
la RSI vi si adeguasse, il capo del governo aveva consegnato il plico a
Mezzasoma ordinandogli di chiuderlo in un cassetto e di rispondere negativamente,
come in effetti sarebbe avvenuto, a qualsiasi richiesta potesse pervenire
da parte dell’autorità civili e militari tedesche.
L’attività di lavoro di Mezzasoma era notevole,
con punte anche di 14-18 ore giornaliere, alternantesi fra gli impegni
del proprio ufficio a Salò, i contatti quotidiani con Mussolini
a Gargnano, le incombenze politiche e propagandistiche in altre località.
Ma il compito più oneroso era certamente quello di controllare,
in un periodo del genere, la stampa nazionale. Da Salò non era possibile,
il più spesso, inviare tempestive direttive ai quotidiani delle
maggiori città né ricevere sempre con regolarità copia
degli stessi; e tanto meno si poteva fare affidamento sui collegamenti
telefonici, sovente interrotti dai bombardamenti o dai sabotaggi. A tutto
ciò andava aggiunto l'ostruzionismo dei tedeschi, incapaci di comprendere
la necessità di una massiccia campagna giornalistica e pertanto
sempre più avari nelle assegnazioni di carta e più avidi
nell'appropriazione degli impianti tipografici.
Fu un periodo difficile, drammatico, dove ai traumi
oggettivi di una guerra che si combatteva sulle e dietro le linee del fronte
si associavano le difficoltà create dalla confusione degli animi,
dai velleitarismi, dalle recite a soggetto, dall'esuberanza di passioni
e sentimenti, dal coesistere di ambiguità e purezza, da personalismi
mai sopiti e che nemmeno la tensione dell'ora riusciva a contenere. Solo
uomini della tempra di un Fernando Mezzasoma potevano riuscire a procedere,
nel marasma delle coscienze e dei comportamenti, lungo una linea di dignitosa
fermezza e di coerenza, di serena, fidente accettazione: “Qualsiasi cosa
avvenga, avremo avuto la fierezza di vivere un grande periodo”, queste
le sue parole all'amico di sempre Fernando Feliciani nell'aprile 1945,
poco prima della fine. Ma forse, nel più profondo recesso dell'animo,
anche una punta di soffusa “invidia” per Ricci, Giani e Pallotta ai quali
la morte in guerra aveva risparmiato la dissolvenza di una speranza e di
un sogno. Giorgio Almirante, che quale suo capo di gabinetto gli fu particolarmente
vicino in un rapporto che non era solo di collaborazione ma anche di amicale
dimestichezza, ha ricordato come egli continuasse ad agire per un avvenire
che non gli apparteneva molto più che per un presente che gli sfuggiva
di mano. E così intimamente credeva nella sua concezione della vita
che il crollargli addosso di macerie morali e materiali ad altro non lo
induceva che a sentirsi più certo e più chiaro, conferendogli
la forza di staccarsi dal tempo e di commisurare le ore dell'esistenza
su paradigmi di permanenti verità morali. Era la conferma di quel
sereno senso di religiosità della vita che da sempre era stato in
lui manifesto in ogni atteggiamento, al di là della pratica di un
cattolicesimo tanto più compostamente vissuto quanto più
profondamente sentito, con quella riservatezza tutta umbra che gli era
tipica.
Aveva tenuto il primo rapporto ai direttori dei
giornali il 12 gennaio 1944. Non vi sarebbe stata censura preventiva, aveva
detto, tranne quella, ovvia, sulle notizie di carattere militare (sotto
questo aspetto, erano anche i termini di un accordo con la “Propaganda
Staffel”, organo tedesco incaricato del controllo della stampa italiana
istituito dal Feldmaresciallo Rommel). Ma pochi mesi dopo, nel maggio,
gli addetti stampa presso le singole prefetture erano stati incaricati
di ripristinare una preventiva revisione politica. In una relazione a Mussolini
del 27 dello stesso mese, Mezzasoma riconosceva a malincuore che il non
ricorso alla censura non aveva dato i risultati sperati, specie per la
scarsa maturità ed il carente senso di responsabilità della
maggior parte dei giornalisti italiani. Ed era rammaricato di ciò
perché, affermava, la censura preventiva era destinata a provocare
la mortificazione delle intelligenze e della volontà, conducendo
la stampa verso il pericolo dell'uniformità che, togliendole mordente
ed interesse, ne avrebbe compromesso l'efficacia, mentre gli stessi direttori
avrebbero finito con l'adattarsi volentieri al sistema del controllo preventivo
che li avrebbe resi immuni dal rischio e dalle responsabilità.
Lo stimolo per il ripristino della censura era stato
offerto, soprattutto, da un appello alla “discussione” lanciato alla fine
di marzo 1944 sul “Resto del Carlino” dal direttore Giorgio Pini, raccolto
da molti altri giornali che tessevano l'elogio di pubbliche assemblee “liberalissime”
e “tumultuose” da indire perfino nelle piazze per dibattere i problemi
del momento. Il 7 aprile perveniva ai prefetti una circolare a firma di
Mezzasoma da diramare ai direttori dei giornali. Era la risposta chiara,
essenziale, realista a quanti, sia pure in buona fede, avevano perso (se
mai l'avevano posseduta) la esatta consapevolezza del momento che si stava
vivendo e della posta in gioco: “...il risultato è quello di persuadere
gli italiani che la necessità più urgente del momento è
quella di discutere, come se questo fosse il solo mezzo idoneo a salvare
la Patria, la quale ha invece bisogno di uomini disposti a cercare nei
ranghi dell'esercito il punto di incontro delle loro idee politiche, piuttosto
che in pubblici arenghi dove gli 'attendisti’ trovano facilmente il conforto
di nuovi alibi alla loro diserzione. Si discuta pure, ma non si continui
ad invocare la discussione. Si critichi, ma non si insista nel lamentare
che la critica non sarebbe consentita. Si abbia il coraggio di dire la
verità e di documentarla, invece di affermare che non bisogna aver
paura di dirla. Si faccia della propaganda, e non si sciupino inchiostro
e spazio per discutere sui giornali intorno ai metodi della medesima...
Questo è il dovere che dobbiamo assolvere senza ulteriori e delittuosi
indugi, se non vogliamo che nella bandiera della Repubblica Sociale Italiana,
al posto del verbo 'combattere', si debba scrivere il verbo 'discutere',
che non potrà mai costituire la parola d'ordine di un popolo il
quale voglia veramente riconquistare indipendenza ed onore” (1).
La stessa posizione intransigente che lo avrebbe
portato, 3 mesi dopo, a sollevare dall’incarico di direttore di “Repubblica
Fascista” Carlo Borsani, medaglia d'oro al v.m. cieco di guerra e presidente
dell'Associazione Nazionale Mutilati. Questo profilo dell'uomo, la sua
purezza ed integrità, dovevano far si che per Mezzasoma fosse oltremodo
penoso dover prendere tale risoluzione. Borsani faceva parte, con altri,
della corrente della distensione, fautore di un discorso “al di sopra delle
barricate” da rivolgere alla grande quantità di giovani sviati,
disorientati, impauriti ai quali si sarebbe dovuto parlare il linguaggio
dell'amore e della fratellanza. Ed in una serie di articoli, aveva lanciato
l'appello alla gioventù italiana perché si unisse su un piano
di solidarietà che prescindesse da ogni partito e da ogni personalità
passata o recente. Una formulazione poetica, lirica, nobilissima, un anelito
in misura d'amore, peraltro assolutamente fuori dalla realtà di
un'ora che non consentiva ormai più scorciatoie di ritorno, per
nessuno, da una parte come dall'altra. “...per noi fascisti, caro Borsani,
non può esservi altro punto d’incontro all'infuori di questo: la
vecchia bandiera fascista ,quella per la quale e contro la quale il mondo
si è schierato in due campi opposti. Tutti gli appelli all’amore,
tutti gli abbracciamenti più o meno patriottici sanno di rinunzie
e compromessi che noi fascisti non possiamo accettare”. E in un post-scriptum,
aggiungeva: “All’indomani della pubblicazione del tuo articolo (si riferiva
all'editoriale “Per incontrarci” del 10 luglio 1944 - n.d.r.) è
uscita sui giornali la notizia dell'assassinio a tradimento di 10 uomini
della Xa, reduci dalla battaglia per la difesa di Roma. Tra i caduti
è il comandante Bardelli, che aveva parlato ai fuorilegge il linguaggio
della fratellanza nel nome della Patria” (2).
La stessa posizione intransigente che lo avrebbe
portato a richiamare i giornalisti al rispetto di una deontologia che prima
ancora che professionale era umana. Accanto infatti a giornalisti che,
pur consapevoli di trovarsi in una posizione ad alto rischio, non si tiravano
indietro e mantenevano una linea di franca coerenza, verso la primavera
del 1944 cominciavano a manifestarsi casi di colleghi che, pur continuando
a lavorare per le varie testate, tendevano a “mimetizzarsi”: alcuni si
dedicavano ad articoli non legati all'attualità, altri firmavano
i loro elaborati con nomi di fantasia o con sigle. Il vento spirava sempre
di più in una direzione e, secondo l'inveterato costume italico,
era bene cominciare a pensare al modo più opportuno per abbandonare
la nave. Ma non era certo ad un uomo della levatura di Fernando Mezzasoma
che si sarebbe potuto far tollerare un tale livello di meschino opportunismo.
Il 25 aprile 1944 partiva la prima “bacchettata”: “Si rileva che la stampa
quotidiana e periodica fa abuso di scritti non firmati e contrassegnati
da pseudonimi. Si ricorda che l'attuale momento esige da ognuno chiari
atteggiamenti e precise responsabilità”. Il 4 novembre il concetto
veniva ribadito con la stessa incisività: “Viene segnalato un abbondare
di articoli anonimi. I lettori desiderano conoscere delle opinioni precise
e perciò sottoscritte. D'altra parte il momento attuale impone una
risoluta consapevolezza dei doveri e delle responsabilità. Gli articoli
devono essere firmati a cominciare da quelli dei direttori” (3).
Un altro giornalista, Benito Mussolini, circa un
mese dopo, in un lungo telegramma ai capi delle province, compendiava con
l'abituale incisività una situazione, quella della stampa, che rappresentava
una chiara proiezione del fluire confuso e disordinato di punti di vista
e stati d'animo: “Si va da una stampa incolore ed attendista a fogli dove
le idee più sfasate ed i furori letterari si alternano in uno sforzo
che vorrebbe essere giacobino ed è semplicemente velleitario...Non
si possono improvvisare serenate sotto le finestre degli uomini delle più
varie tendenze ed idee i quali rispondono a colpi di pistola”. (4)
L'azione di Mezzasoma durante la Repubblica Sociale
fu di intransigenza, di severità fermentata da fede spiritualmente
mistica. Era l'ora dei grandi impegni personali, perché la Repubblica
Sociale, sorta dalla disperazione e primo anelito di speranza sopra le
rovine dell'angoscia, è stata innanzitutto vicenda umana, personale,
di individui messi irreversibilmente di fronte, più che agli altri,
a loro stessi. E' stata l'ora della fedeltà ad un ideale, ad un
modello di vita, a tutto ciò che nello schema storico di ciascuno
aveva avuto e continuava ad avere un significato di struttura portante.
Di questo si era fatto interprete il giovane ministro alla fine dell'estate
1944 in una conversazione radiofonica diretta ai giovani: “Non v’è
maggior rinuncia di quella che un popolo compie rinnegando quanto il genio
e la volontà dei suoi figli migliori hanno saputo creare. Niente
può essere ripudiato del nostro passato, al di fuori degli uomini
disonesti che hanno tradito l’idea alla quale avevano legato per giuramento
la propria vita e la propria morte”.
Il 19 aprile 1945, anche Mezzasoma si trasferiva
a Milano con Mussolini ed altri membri del governo. Con la serenità
che gli era tipica, continuava ad attendere alle proprie funzioni. Il giorno
24 rimandava a Salò il suo capo di gabinetto per congedare il personale
del ministero, corrispondere a tutti, in egual misura, una indennità
straordinaria e per distruggere l'archivio riservato. In esso, tra l'altro,
c'era tutta la documentazione relativa alle sovvenzioni elargite, sin da
prima del 25 luglio, alla vasta schiera di giornalisti, scrittori, artisti,
intellettuali in genere divenuti poi, nello spazio di 24 ore o giù
di lì, i più frenetici aedi dell'antifascismo.
All’inizio di queste note si è accennato
al suo commiato dai più diretti collaboratori nel tardo pomeriggio
del 25, compendiatosi in quella proposizione lapidaria con la quale sanciva,
in assoluta coerenza, La propria sorte. Di questa intransigenza, che era
stata la costante del suo modulo esistenziale e che non veniva meno neanche
in questo epilogo tragico coinvolgente la stessa sopravvivenza fisica,
dava un’ulteriore testimonianza la sera del 26, mentre si trovava a Grandola,
sopra Menaggio, con la colonna del Duce. Era stato raggiunto da alcuni
conoscenti della zona, che gli prospettavano possibilità di salvezza
e, con trepida, affettuosa insistenza, lo scongiuravano di andare con loro:
“Non posso, ho sempre seguito Mussolini, debbo seguirlo anche ora”.
Così, con un sorriso appena accennato, con quello sguardo, dietro
le grandi lenti che ne accentuavano la profondità, nel quale la
drammaticità dell'ora si stemperava in un alone di serena determinazione.
La stessa con la quale si sarebbe separato dalla famiglia sforzandosi,
con un atteggiamento studiatamente disinvolto e sbrigativo, di non turbarne
l'equilibrio emotivo e di non cedere al proprio struggimento.
Fu fucilato dai comunisti il 28 aprile, sul lungolago
di Dongo, con gli altri 14 che con lui, prima della scarica, dedicarono
un triplice “viva" all'immagine di un’Italia che era già morta.
Il giorno prima, mentre con gli altri prigionieri, all'interno del municipio,
si apprestava a trascorrere l'ultima notte, con voce nitida e pura che
sovrastava il vociare all'esterno del becerume allupato di carneficina,
aveva ordinato il “saluto al Duce”. L'ultimo atto di fede, celebrato attraverso
un rituale che, in quel momento, andava anche oltre la figura di colui
al quale era dedicato per assumere significato di attestazione globale.
“La nostra meta ideale”: nell'articolo così
intitolato, pubblicato su “Libro e Moschetto” del 24 febbraio 1940, Fernando
Mezzasoma aveva scritto: “... per noi fascisti quello che importa non è
di vivere a lungo ma di vivere degnamente...saper vivere e saper morire,
su queste basi il fascista deve innalzare giorno per giorno, pietra su
pietra l’edificio della sua mistica vita, una vita che è la sola
che possa dare agli uomini le ali verso le altitudini”.
Giorno dopo giorno, preparando quello estremo del
sacrificio, la meta era stata raggiunta.
Ringraziamento
L'autore esprime viva gratitudine alla sig.ra Anna
Deri vedova Mezzasoma ed al dott. Stefano Bellini, figlio di Vittoria,
terzogenita del Ministro, e recente autore di una brillante tesi di laurea
sulla figura del nonno nella RSI, per gli elementi conoscitivi diretti
e documentali (compresi quelli fotografici) messigli a disposizione con
la più amabile disponibilità.
Riferimenti bibliografici
Almirante G., Feliciani F., “Mezzasoma”, Roma, C.E.N.,
1959.
Almirante G., “Autobiografia di un fucilatore”,
Roma, edizioni de “Il Borghese, 1973.
Almirante G., “Immagini di Fernando Mezzasoma”,
in “Mussolini nel centenario della nascita”, Roma, Ciarrapico, 1986.
NOTE
(1) Amicucci E., “I 600 giorni di Mussolini”, Roma,
editrice Faro, 1948, pagg. 125-127.
(2) Almirante G., Borsani C. jr, “Carlo Borsani”,
Roma, Ciarrapico, 1979, pagg. 65-66.
(3) Matteini C., “Ordini alla stampa”, Roma, EPI,
1945, pagg. 321 e 341.
(4) Amicucci E., op. cit., pagg. 110-111.
STORIA VERITA' n. 8 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)
MEZZASOMA, ARCHITETTO MISTICO
DI SCHIETTA CULTURA EUROPEA
Bruno De Padova
"E’ vero. Fatti ci vogliono e non parole. Ma i fatti si debbono
fare, non si possono soltanto invocare od ottenere. E’ questo il compito
attuale dei giovani: agire!" Con tal’incitazione all’azione politica
e alla consapevolezza patriottica indirizzata alle nuove generazioni, Fernando
Mezzasoma Ministro della Cultura Popolare nel Governo della Repubblica
Sociale di recente costituzione compì la sua conversazione radiofonica
trasmessa il 2 dicembre 1943 dall’E.I.A.R. (l’Ente Italiano Audizioni Radiofoniche,
condotto allora con correttezza da Ezio Maria Gray) per contribuire ad
affrancare gl’Italiani dalla tragicità d’avere perduto di colpo
il senso della Nazione e d’ogni peculiarità civile in seguito al
‘colpo di Stato’ del 25 luglio e all’ignominia della resa incondizionata
al nemico dell’8 settembre.
Ciò compiuto assieme al tradimento dei patti politico-militari
assunti, mediante l’Asse, con gli Stati europei e poi con la ‘Grande Asia’
guidata dal Giappone (sotterfugio vilmente elaborato dai Savoia, da Badoglio
e dai loro adepti altrettanto complici della massoneria) che il generale
yankee D. D. Eisenhower, dopo avere utilizzato tutto ciò, lo definì
un crooked deal, cioè parecchio peggio di ‘uno sporco
affare’, come lo specificò nei dettagli nel 1945 l’esperto Christopher
Buckler nella documentazione ‘Road to Rome’ (la Strada verso
Roma) in cui si può considerare l’inganno usato da W. Churchill,
da F. D. Roosevelt e da J. Stalin per eliminare tutt’insieme l’intera struttura
delle FF.AA. Italiane comprese le loro flotte aerea e navale dal
Mediterraneo e dai Balcani, nonché da qualsiasi altro scacchiere
strategico del Secondo Conflitto Mondiale.
Specificando la citazione morale di D. Alighieri su ‘Lume v’è
dato a bene e malizia’, Mezzasoma precisò che "non v’è
maggiore rinuncia di quella che un popolo compie rinnegando per smanie
del nuovo quanto il genio e la volontà dei suoi figli migliori hanno
saputo creare col lavoro e col sangue. Niente può essere ripudiato
del nostro passato al di fuori degli errori che si sono commessi e al di
fuori degli uomini disonesti che hanno tradito l’Idea alla quale avevano
legato per giuramento la propria vita e la propria morte", spiegando
poi appieno la maggiore responsabilità di compiti assunta dai protagonisti
del nuovo Stato la Repubblica Sociale a cui in data 23-IX-‘43, con il Governo
più adeguato alle necessità incalzanti, Mussolini s’aprì
al riscatto dell’Onore nazionale e per il perfezionamento dell’ordinamento
del Lavoro mediante il vero impegno di Socializzazione dell’economia produttiva.
Infatti, nel volume ‘Uomini e scelte della R.S.I.’ (ediz. 2000),
lo scrittore Fabio Andriola tratteggia assieme a diversi studiosi l’intensità
di competenza, di coerenza e di volontà con cui il filosofo G. Gentile,
il diplomatico F. Anfuso, il maresciallo R. Graziani, il corporativo A.
Tarchi, il comandante J. V. Borghese, il professore C. A. Biggini, l’ideologo
tradizionalista J. Evola, l’artista F. T. Marinetti e persino l’ex comunista
N. Bombacci, con parecchi altri personaggi (uomini diversi per formazione,
ma associati da virtù di valutazione confluenti nella civiltà
d’istruzione, di professioni e di mestieri), diedero il loro autentico
contributo d’energia morale all’edificazione d’una Patria moderna autentica
Nazione col vigore che Mezzasoma volle trasfondere nella gente genuina
con la potenza di penetrazione scaturita dal suo ascetismo ideologico che
L. L. Rimbotti attraverso un’altra ricognizione su coloro che dal sansepolcrismo
del 1919 giunsero all’evoluzione del P.F.R. a Verona nel novembre 1943
e al ‘manifesto programmatico’ rivoluzionario sul piano sociale che lo
qualificò trasmette col tomo ‘Il Fascismo di sinistra’ (ediz.
1989) e che identifica la sostanza del patrimonio di tale nuova Cultura
mediterranea, europea ed anche mondiale che, in sintesi metafisica, raccoglie
la visione augustea di qualsiasi iniziativa di progresso sociale (ecco
l’autentica ‘sinfonia’ della civiltà latina!).
Proiettando nel contempo l’energia del sindacalismo rivoluzionario
(da Corridoni in poi), del combattentismo anche ideologico (futurismo,
ardimento e fiumanesimo), delle conquiste d’avanguardia intraprese dalla
Carta del Lavoro sino al progetto universale della Socializzazione di cui,
per chi visse e rammenta l’epopea della R.S.I. anche all’inizio del 1945,
fu sempre ribadito in pieno, nel manifesto d’autore rimasto anonimo, il
fulgore di una nuova Europa per i lavoratori da concretizzare senza
esitazioni mediante l’energia vitalizzatrice di progresso rappresentata
dalla collaborazione effettiva tra imprenditori e produttori di qualsiasi
settore.
Ecco la schietta volontà e lo stile nuovo d’architettura sociale
per il progresso civile nel futuro e che il Fascismo repubblicano, nonostante
gli ostacoli e le avversità del periodo 1943-1945, seppe introdurre
per l’equilibrio futuro tra i continenti e tra le nazioni quindi, per il
mondo intero e che sempre Mezzasoma trasmise, in funzione di coscienza
popolare, all’intera umanità della R.S.I.
Emerse così l’autentica volontà di liberazione del ‘vecchio
Continente’ (quello vero, naturalmente) dal ‘mito’ ingannatore del libero
mercato che, attraverso l’impostazione classica del ‘liberismo’ di
Adam Smith e di David Ricardo, sfociò nella strumentalizzazione
d’ogni Stato e delle risorse umane (quelle del vero produttore-lavoratore)
da parte della plutocrazia per cui J. M. Keyries fu il menestrello dei
baiocchi.
Sta di fatto che Mezzasoma come indica Luigi Emilio Longo nel trattato
‘R.S.I. - Antologia per un’atmosfera’ (ediz. 1995) trasmise nel
nuovo Stato la volontà e la forza innovatrici che l’animarono sempre,
dall’inizio della sua battaglia politica sino al suo assassinio a Dongo,
in quanto ‘aveva fatto parte, con Berto Ricci, con Guido Pallotta, con
Niccolò Giani e con pochi altri, di quel gruppo di giovani fascisti
alfieri di un misticismo attivo, una sorta di tensione ideale, una concezione
della vita intesa come sacrificio e non come godimento filisteo o borghese,
come eroismo in quanto sforzo continuo di superarsi. Dei veri e propri
‘eretici’, a fronte della progressiva atrofia ideologica e spirituale alla
quale si stava progressivamente avviando la maggior parte della classe
dirigente del P.N.F.’.
Quindi, una precisa condanna dell’opportunismo dei camaleonti, malcostume
che indusse nel 1940 Ettore Muti a dimettersi dall’incarico di Segretario
Nazionale del P.N.F. dopo avere denunciata la gravità di tale iattura
per il Fascismo e a tornare a guidare gli stormi di trimotori nei cieli
del Mediterraneo.
Tutto ciò, purtroppo (e rammentiamolo!) confonde l’attualità,
induce a riflettere con severità d’analisi sulla complessa calamità
d’alchimie di una pseudo politica economica costipata nel Trattato di
Maastricht (ratificato anche dall’Italia nel 1995) e destinato a concretizzare
i vantaggi per i Paesi e per i popoli dell’Unione Europea, ad iniziare
dalla congiunzione doganale degli Stati sottoscrittori fino all’introduzione
della moneta unica (il contestato ‘euro’ che nella nostra penisola
ha provocato il vertiginoso aumento del costo della vita e lo spappolamento
tuttora spietato dei risparmi dei cittadini), mentre il faticoso approntamento
della Costituzione per l’agglomerato di Stati con sede a Bruxelles
non ha sinora delineato i cardini fondamentali d’indipendenza dell’U.E.
dal rischio di coinvolgimento e di colonizzazione economici negli interessi
dell’alta finanza: perché, anche sul ‘vecchio Continente’, il progresso
civile come denunciò Ezra Pound non deve venire tormentato dal dramma
sociale che scaturisce ineluttabilmente dall’assoggettamento all’usura
della plutocrazia.
In tale proposito, è Giano Accame che nel brillante saggio ‘Ezra
Pound economista Contro l’usura’ (ediz. 1995) illustra come Mezzasoma
accolse con la dovuta ponderazione quanto il Ministro D. Pellegrini Giampietro
i richiami del poeta-filosofo dei ‘Cantos’ sull’opportunità
rivoluzionaria per la ‘socializzazione della moneta: tesi che, all’interprete
costruttivo delle istanze avanzate da Berto Ricci già nel 1931 col
periodico "L’Universale", confermò l’etica inestinguibile
di quell’uomo dell’Idaho che, quanto Brasillach, definì il Fascismo
la ‘verità più esaltante del XX secolo’ [M. M.
Merlino, ‘Ezra Pound testimone e poeta’ (ediz. 1983), pag. 54],
sebbene rinchiuso dai cosiddetti ‘liberatori’ in una gabbia di filo spinato
nel campo di concentramento di Coltano.
Altresì, è da considerare quanto Sergio Bonifazi [nel
capitolo ‘Il nuovo ordinamento’ dell’opera ‘Viaggio attraverso il Fascismo’
(ediz. 1990)] specifica: "il Fascismo si affermò in Italia
in una società di classi e non è durato abbastanza per trasformarla
interamente in una società di Ordini. Gli è mancato il tempo
per attuare una profonda trasformazione sociale" poiché
‘l’azione fascista’ ha preceduto l’intendimento e la conoscenza della sua
teoria, contro cui il liberalismo, il socialismo e il marxismo-leninismo
utilizzarono la forza devastatrice della ‘quarta arma’, cioè l’intensità
della propaganda psicologica introdotta da U.S.A., Gran Bretagna e U.R.S.S.
anche contro le istanze civili della Repubblica Sociale [chi dimentica
le falsità del Political Warfare Executive inglese, del Psychological
Warfare Branche statunitense, di Radio Mosca e di Radio Milano
Libera entrambe coordinate per l’U.R.S.S. da Palmiro Togliatti?] in
difesa dalla quale Mezzasoma impiegò ogni mezzo a sua disposizione
(radiofonia, giornali, cinematografia ecc.) per salvaguardare gl’Italiani
e l’Europa dagli effetti deleteri delle calunnie propagandistiche.
Fu G. Almirante in sintonia con F. Feliciani che nel 1959 ribadì
lo stile superlativo di Fernando Mezzasoma, di questo mistico sempre
coerente nell’etica, che nato a Roma il 2.VII.1907 — immise nell’Umbria,
in particolare nell’Università di Perugia, la sua forza morale con
l’incitamento a un’autentica volontà politica.
Nel prezioso fascicolo ‘Mezzasoma’ viene precisato che il sacrificio
in combattimento di Berto Ricci (Marmarica, 1941), di Guido Pallotta (fronte
libico, 1940) e di Niccolò Giani (trincee d’Albania, 1941) è
identico a quanto affrontò senza esitazioni il Ministro della Cultura
Popolare dell’ultimo Governo Mussolini il 28 aprile 1945 a Dongo, dinanzi
alla banda di partigiani che lo trucidò insieme ad altri quindici
esponenti della R.S.I., mentre a Giulino di Mezzegra furono trucidati Benito
Mussolini e Claretta Petacci. Sul piazzale di Dongo, insieme al capo della
R.S.I., gli antifascisti tentarono di sopprimere anche la cultura inerente
la Civiltà del Lavoro, cioè l’autentica liberazione
dall’imposizione oppressiva dell’usura plutocratica e dalla schiavitù
implacabile del marxismo sovietizzato.
E’ rimasta, naturalmente, una chimera. Dai valori civili della Repubblica
Sociale, dal calvario di Piazzale Loreto a Milano e dal martirio
dei credenti nella supremazia dell’assolvimento del dovere per la conquista
del diritto, germoglia l’autentica unità delle Nazioni europee,
della vera Patria del ‘vecchio Continente’ idealizzata da D’Annunzio, Marinetti,
Gentile, J. Evola, Céline, Drieu La Rochelle, Brasillach e Knut
Hamsur e dai molti poeti armati per la genuina rivoluzione sociale
che esprime l’evoluzione armoniosa delle forme di lavoro in modo organizzativo
ed esecutivo, intellettuale, tecnico e manuale.
Una ‘rivoluzione’ quindi quale fulcro di civilizzazione tramite l’ordinamento
italiano, europeo e mondiale concretizzato con la socializzazione dell’economia
produttiva e delle risorse d’energia, tale d’affrancare l’uomo dal ruolo
umiliante di consumatore subordinato alle ragioni dell’alta finanza.
La sinfonia politica del progresso civile e sociale è mistica
di Mezzasoma si realizza nel solco tracciato con l’aratro condotto dal
cittadino che fa germogliare il grano apportatore di genuino equilibrio,
in sintonia con l’espressione melodiosa dell’Eroica di Beethoven
e con l’Inno di Puccini che unisce la tradizione latina dell’Urbe alle
necessità del futuro.
Purezza di volontà e coerenza nella responsabilità distinguono
la biografia di Mezzasoma e rappresentano un esempio da considerare appieno
nel loro significato.
ITALICUM novembre - dicembre 2003 (Indirizzo e telefono:
vedi PERIODICI)